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Tre racconti

  • Immagine del redattore: rossanazancanaro
    rossanazancanaro
  • 19 feb
  • Tempo di lettura: 22 min

Breve intro

Questa raccolta di 3 racconti è stata stesa nella primavera del 2018 per partecipare al torneo Wattpad indetto dal Club dell'inchiostro.

I temi erano imposti da loro, e corrispondono ai titoli dei racconti.


ree


La Fuga

Time to escape the clutches of a name,

No this is not a game,

It's just a new beginning.

[Escape, 30 Seconds to Mars]


Questa stanza è davvero piccola.

O forse no, in realtà.

Più che piccola veramente è claustrofobica, sarebbe per due persone ma attualmente ci sono solo io e so benissimo che questo senso di oppressione non è colpa delle pareti intaccate dall'umidità o dei mobili vecchi ed austeri.

È che mi sentirei rinchiusa in una stanza piccola e triste anche se fossi in mezzo al parco più grande del mondo.

Chiusa, sola, in catene. Ma ancora per poco.

Fino a pochi giorni fa vivevo in una casa bellissima, a pensarci ora mi pare così strano ed assurdo, sembra un ricordo lontano che non si sa più se sia relativo a qualcosa accaduto veramente o ad un sogno. A un'illusione.

Beh, effettivamente faceva parte di un'illusione: dorata e stupenda, perfetta per tutti tranne che per me.

Fuori dalla porta ci sono due agenti di polizia, lo so anche senza vederli perché il tenente della loro sezione me l'ha assicurato, "rimarranno qui davanti di guardia tutto il tempo", col suo sguardo serio e sempre un po' intimidatorio.

Fisso il soffitto.

Sono stesa su questo materasso duro appoggiato su una semplice intelaiatura di metallo, insieme formano un letto su cui fino a qualche tempo fa non mi sarei mai nemmeno seduta, piuttosto il rogo, avrei pensato. Mentre adesso...

...mentre adesso la mia mente viaggia, corre e naviga tra ricordi del passato modificandoli a suo piacimento e dando ad ognuno una fine diversa, migliore, più giusta e bella. Mia madre mi ha sempre detto che creo troppi castelli in aria, ed effettivamente ha ragione ma non sa che questo è l'unico modo che avevo per fuggire la realtà, una realtà e una vita in cui avevo tutto, tutto: soldi, comodità, una famiglia che mi avrebbe protetta a tutti i costi, oggetti, vestiti, ogni mio capriccio soddisfatto.

Forse mi mancava solamente la libertà di essere chi volevo, e quella libertà la trovavo unicamente nei sogni.

Sono diventata un'eccellente sognatrice ad occhi aperti, per quanto questo non porti poi a nulla di tangibile e reale, a conti fatti. Ma ho solamente diciassette anni, questo vuol dire che sono stata piccola in percentuale molto a lungo considerando la mia intera vita fin'ora; e come può una bambina fuggire ed essere libera se non sognando?

Ora sono cresciuta però, per amore o per forza ho dovuto. Il mio corpo, no, non pare d'accordo perché l'immagine che mi vedo sbattere in faccia da ogni singolo, spietato specchio che incontro è quella di una ragazzina ancora dai lineamenti troppo infantili e dalle forme troppo acerbe, con i suoi zigomi tondi e i fianchi inesistenti, e con un seno formato per il novanta percento dal tessuto del suo intimo. Occhi grandi, sì, ma sempre preoccupati e all'erta, almeno un po'. Labbra carnose, mangiucchiate e screpolate però, sempre. Gambe lunghe, certo certo, ma troppo scheletriche, quand'è che ho smesso di mangiare?

Stringo le palpebre e tento disperatamente di trattenere le lacrime. Non ho pianto nemmeno una volta da quand'è iniziata questa storia e non cambierò di certo ora condotta, nemmeno morta, la decisione che mi anima dall'interno è troppo forte per farmi prendere dallo sconforto. Anche se ciò che si manifesta all'esterno è solamente l'essenza di quella bambina che sognava la libertà al di là delle mura di cinta di casa sua.

Ma cos'è, poi, materialmente la libertà che anelavo? Non lo so di preciso, non lo so...

Cos'è?

Cos'è?

Chiudo gli occhi, che avevo nuovamente fissato al soffitto, abbasso le palpebre delicatamente, lascio che il respiro rallenti, permetto alla mente di appianarsi e allo stesso tempo di viaggiare, dove vuole, dove vuole...


E ho otto anni.

Otto.

Sono piccola, me lo ricordo, sola come pochi bambini, a quell'età, con la mia insegnante personale invece che un banco di scuola, con i miei giocattoli perfetti e sempre nuovi.

Con due piccoli codini ai lati della testa, ancora la pubertà non ha reso i miei capelli mossi e perennemente spettinati.

Per la prima volta penso che vorrei andare a scuola.

La consapevolezza mi colpisce come una meteora, non ricordo quando ho davvero realizzato di volerlo, da un momento all'altro so che è così, più di qualsiasi altra cosa desidero di poter andare a scuola come tutti gli altri e nella mia piccola mente di bambina è come se quel desiderio fosse sempre stato lì. L'ho solo scoperto e decifrato, nulla di più.

Non so a chi dirlo però, papà non si occupa di me. Mamma è troppo severa e ne ho paura, solo crescendo imparerò a vedere in lei qualcosa in più di una carceriera. La zia pare l'ultima spiaggia, ma vengo mandata a letto invece che ascoltata.

Devono passare parecchi giorni prima che io riesca a trovare la forza di porre il quesito a mio padre, perché la mia determinazione è forte ma la paura che mi è stata inconsapevolmente insegnata anche, e quando infine prendo il coraggio a due mani, il risultato è tragedia.

Papà lo vedo poco, vorrei fosse a lavorare anche ora perché così sarei salva da queste sue urla così forti, oh, così spaventose. Rompe un paio dei miei giocattoli, vorrei piangere ma mi sforzo e non lo faccio.

E a scuola non ci posso andare.

A otto anni per me la libertà sarebbe essere come tutti gli altri bambini.


Dodici anni, mi sento molto grande ma non lo sono.

Passo più tempo con mia mamma ora, non sembra più così cattiva, ma quello che mi insegna non mi piace.

Leggo molti libri, io; sono una dodicenne che non ha mai avuto amici normali oltre ai figli degli amici dei genitori, e questo non mi aiuta ad essere socievole. Ma dai libri imparo molto, imparo tutto forse, e tra le altre cose anche che le donne sono forti e possono essere eroine. Guerriere, detective, strateghe, spie, serpi, campionesse sportive, amanti. Qualsiasi cosa vogliano.

A casa, invece, mi dicono cose diverse.

"Devi imparare ad assecondare gli uomini" mi dice mia mamma. "Devi imparare a cucinare bene, e a pulire ancora meglio. A leggere nella mente e nel viso degli uomini che passano da casa nostra tutto ciò che desiderano. Anche di papà. Devi imparare a fare silenzio e a parlare solo a volte, quand'è strettamente necessario, perché solamente così riuscirai a farti strada, qui in mezzo".

E a me non piace quello che devo imparare, sono costretta perché gli schiaffi sono tutto ciò che ricevo se non obbedisco, ma la verità è che io voglio essere un'eroina, voglio avere una vita avventurosa e stupenda.

A dodici anni per me la libertà sarebbe poter parlare e poter sognare il mio futuro.


Ho quindici anni.

Quasi sedici in verità.

Penso di avere il mondo in mano, di sapere tutto, di essere grande ed indipendente, forte ed intoccabile e più furba di chiunque.

La mia famiglia mi vizia molto, ho una casa enorme e un guardaroba stracolmo di vestiti e un cellulare di ultima generazione e una vita perfetta.

Più furba di tutti, ecco cosa sono.

Per questo penso proprio che se decido di uscire di nascosto la sera nessuno mi beccherà mai. Io sono furba, ed intoccabile.

Mi vesto con cura, tirando su la gonna per accorciarla un po' di più e mostrare le gambe, ancora un altro po', dai.

Mi trucco senza esserne più di tanto capace, mi sposto i capelli su una spalla e poi sull'altra, allo specchio penso di essere irresistibile.

Scendo le scale in silenzio, non sento alcun rumore perciò vorrà dire che in casa, per una volta, non c'è nessuno: nessuno zio, nessun amico di famiglia, nessuna riunione di adulti, e i miei sono sicuramente a dormire. È quasi mezzanotte dopotutto.

Attraverso il corridoio del pian terreno al buio, la borsa stretta al petto, le scarpe trasportate entrambe con l'altra mano.

Ascolto attentamente ma non sento nessun rumore. Guardo ovunque ma non c'è nessuna luce.

Sono al sicuro, sono intoccabile, non accadrà niente capace di rovinare i miei piani.

Ma mi sbaglio.

Noto tutto all'ultimo momento; un secondo sono lì, a pregustare l'alcool che berrò e le canzoni che ballerò, l'attimo successivo la scena di cui mi ritrovo testimone indesiderata buca la mia visuale come se qualcuno l'avesse gettata nel mio mondo all'improvviso. Niente mi prepara, niente.

Il porticato fuori casa è illuminato.

La finestra dell'ingresso le tende non le ha.

Fuori c'è mio padre.

Il fiato mi si ferma in gola, ha appena lasciato i polmoni ma non può proseguire un centimetro in più mentre il mio cuore si ferma all'improvviso.

Il mio primo pensiero è cazzo, mi ha scoperta.

Poi noto qualcos'altro, noto che c'è qualcun altro, noto che non è da solo, noto che non se ne sta lì a prendere il fresco della sera, mio padre, e che quella che ha in mano non è la solita sigaretta; noto che è una pistola che ha in mano, il mio papà.

E che l'altro uomo non è un uomo ma un ragazzo, e che è giovane.

Tanto giovane.

E che c'è anche quello che tutti mi fanno chiamare zio ma che non è fratello né di papà né di mamma. E anche lui ha una pistola.

Dicono qualcosa, il ragazzo giovane e lo zio che non è mio zio, ma papà li interrompe entrambi. Parla ma non lo sento, sembra davvero molto arrabbiato, come quando dicevo qualcosa di sbagliato, da piccola, prima della lezione di mamma.

"Parla solo a volte, quand'è strettamente necessario."

Il ragazzo fa un passo indietro. Non l'ho mai visto e quanto vorrei aver continuato così, ha un viso che non scorderò più. Veste solamente un paio di pantaloni leggeri e una t-shirt bianca con un logo che non conosco, rosso, ghirigorato, nient'altro.

Un tipo qualsiasi, un ragazzo come tanti, che contro la sua volontà, però, diverrà parte integrante della mia vita. Nuova vita.

Alza le mani il ragazzo, ha paura e si vede lontano un miglio.

Papà invece no, non ha paura, scuote il capo e per un nanosecondo si gira del tutto verso casa, sembra quasi mi guardi in faccia ma io sono al buio e lui non mi vede.

Alza il braccio, sembra dispiaciuto ma i suoi occhi non lo sono.

La pistola è enorme, riempie completamente la mia visuale. Brilla alla luce gialla della lampada, non me ne rendo nemmeno conto che tremo anche se non fa freddo per niente.

Quando la pistola spara, io sobbalzo come se il proiettile fosse destinato a me, ma gli occhi dalla scena che mi si svolge davanti non li stacco, non riuscirei nemmeno se mi trascinassero via.

Il ragazzo barcolla. Solo un po', mentre una rosa stupenda e vermiglia si allarga in fretta sul suo petto.

Poi cade, ed è ora che le mie gambe si sciolgono e mi riportano su, via, lontano, di corsa ma in silenzio nella mia stanza perfetta che perfetta non è più, nell'abbraccio sicuro del mio letto che sicuro non sarà mai più.

Ho quasi sedici anni.

Credo di avere il mondo in mano, di sapere la verità su tutto, di essere grande ed indipendente e più furba di chiunque.

L'unica cosa che penso, per tutta la notte, è "parla solo a volte, quand'è strettamente necessario".

A quindici anni per me la libertà si è mostrata in un modo del tutto inaspettato, e ha la forma della cosa giusta da fare.


È da quella penosa sera d'estate che ho cominciato a seguire alla lettera l'insegnamento di mia madre. Mai lezione risultò più utile, e mai raccontai a nessuno ciò che avevo visto e scoperto quella notte.

Poi arrivarono le indagini, che portarono notizie al telegiornale, che mi misero a conoscenza di tutta la storia o quasi. Ci vollero molti mesi prima che qualcuno arrivasse alla nostra famiglia.

Niente prove, in ogni caso.

Nessuna, nemmeno la più piccola, nemmeno la più insignificante, e nemmeno un misero, microscopico testimone ovviamente.

Quando la tua famiglia ha una cerchia di amici e parenti stretta come la mia, nessuno risale a te a meno che qualcuno dall'alto non lo desideri.

Nessuno sospettò mai di me, come poteva la piccola, intoccabile, viziata cocca di papà sapere qualcosa? Cresciuta in una campana di vetro foderata di bugie ed istruita come una brava donna, che potesse diventare la brava moglie di uno dei figli di qualche bravo finto zio.

Mantenni un rispettoso silenzio in cui nessuno lesse niente, tranne mamma. Lei, un giorno, nelle profondità del mio silenzio qualcosa lesse, ed io ricorderò per sempre il suo sguardo, mai stato più serio di così, con me; solo una cosa mi disse, nient'altro: quella frase che tanto avevo odiato, per la piccola dodicenne che ero stata rappresentava l'emblema delle catene che la famiglia le avrebbe sempre imposto, quel giorno per me divenne lo spiraglio capace di regalarmi la fuga verso la libertà.

So che nessuno mi crederà.

Fuori dalle persiane chiuse sento il rumore del traffico e le urla di qualche bimbo di passaggio. Presto la porta di questa misera stanza si aprirà per lasciar entrare uno dei detective dell'unità che ha seguito le indagini; una detective donna, pensano che così io possa sentirmi più a mio agio ma la verità è che mi è del tutto indifferente chi mi accompagnerà in tribunale per la mia deposizione.

La giuria non mi crederà, io lo so.

L'onta che contraddistingue il nome della mia famiglia ricadrà anche su di me e non sarà servito a nulla. Tradire mio padre, lasciare la mia casa, dire addio a mia madre, non sarà servito a nulla.

Ma per la ragazzina quindicenne che ha visto ciò che non doveva, e per la sedicenne che alla luce della sua decisione ha smesso di mangiare, per loro ed anche per me la libertà è fare la cosa giusta.

E fare la cosa giusta mi regalerà una nuova identità.

È tempo di fuggire dalle grinfie di un nome.


I don't believe in fate but the bottom line,

It's time to pay,

You know you've got it coming,

This is War.

[Escape, 30 Seconds to Mars]



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Il Rimpianto

The regrets are useless in my mind

She's in my head I must confess

[Whatsername - Green Day]


La guardo. Non faccio altro, sono immobile, non so nemmeno se il mio cuore sta ancora battendo. Ma cosa mi importa poi.

Sono abbandonato su di una poltrona, i morbidi cuscini che accolgono le mie membra sono in netto contrasto con la durezza dei miei pensieri al momento, e se da un lato mi sento perso all'interno di una miriade fluttuante di ragionamenti, dall'altro so di essere estremamente concentrato.

La guardo. Tutto, qua intorno, sa di lei: i colori che permeano la stanza sono tenui, così delicati da parer provenienti da un'altra epoca, da un altro tempo. Quel color marrone chiaro che si sposa così bene col rosa cipria era il suo favorito, era divenuto il suo marchio di fabbrica quell'abbinamento che vedo riprodotto ovunque, qui, in questa stanza semplice ma deliziosamente elegante. È un hotel, non la sua casa che di gran lunga l'avrebbe superato in bellezza, ma trovo che come sostituto non vada poi così male.La guardo ancora, immobile come una statua di sale, e la riconosco in ogni suo dettaglio, in ogni particolare del suo splendido viso.

Tutto mi parla di lei, ho fatto un ottimo lavoro.

Il profumo di lavanda impregna l'aria, inspiro lentamente per non sprecarne nemmeno una particella nonostante non mi serva più sentirlo materialmente per poterlo rievocare nella mia mente. Ma oggi è tutto speciale, è tutto diverso, lei è qui davanti a me e i sogni sono tornati ad essere realtà, quantomeno per una notte, la nostra notte.

Il cielo, fuori dalle grandi finestre, si è tinto di porpora, ma questo è già accaduto qualche tempo fa ora che ci penso; la verità è che il suo viso mi cattura, catalizza ogni mio senso e non mi rendo conto del tempo che passa nonostante ormai le stelle ricamino l'oscura coltre di tenebre attenuata solamente dalle luci della città; concentrandomi riesco ad individuare perfino qualche costellazione, anche se temo di essere sorretto in questo più dall'immaginazione che dalla vista, in realtà.

Ma in fondo, se si riesce a vedere qualcosa con gli occhi della mente, la vista tradizionale a poco serve.

Riporto l'attenzione al tempo presente, a questo importante momento, alla stanza che ci ospita e che sarà l'unica testimone del mio gesto d'amore. Lei è qui, stesa sulle immacolate lenzuola come una sposa il giorno delle nozze, stupenda nella sua semplicità; riposa in pace, il viso rilassato e sereno, le dita abbandonate sul cuscino e le gambe leggermente piegate, rilassate e sensuali come mai sono state prima d'ora, e come mai saranno dopo oggi.

Mai potrà essere più bella di così, mai questa pace che la circonda potrà abbandonarla, e io mi premunirò di incastonare questo momento nell'eternità come la più preziosa delle gemme su di un anello d'oro. La immortalerò in questo istante, grazie a me potrà essere stupenda e giovane e piena di pace com'è ora per sempre.

D'altronde non è ciò che tutti desiderano, in un modo oppure in un altro? Essere ricordati, rimanere giovani, essere insomma immortali, ed io ho lo farò per lei. A lei sarà concesso l'esaudimento di questo grande desiderio, io lo renderò realtà.

Stringo leggermente le dita attorno ai braccioli di legno della poltrona in un riflesso automatico: sono lavorati finemente, così come la testiera del letto e tutti gli altri mobili presenti, e risultano lisci e piacevoli al tocco. Mai quanto la sua pelle però, vellutata e perfetta, bianca come il latte e priva di qualsiasi imperfezione. Non un neo la segna, non una cicatrice la taglia, è creata appositamente per l'appagamento dei sensi, toccarla sarebbe l'ultimo desiderio che chiunque formulerebbe se solo potessero tutti conoscerne la perfezione.

Oh, ma questo privilegio è dato a me e a me soltanto, e di certo non ne approfitterò, non prima dell'istante opportuno quantomeno.

Ogni cosa a suo tempo, mi ripeteva sempre, ogni cosa ha il suo momento.

Lentamente, quasi un movimento troppo affrettato possa svegliarla dal suo stato di pacifico sonno, allungo la mano destra verso il piccolo tavolino che affianca la poltrona ed afferro il bicchiere di scotch che ci avevo precedentemente poggiato sopra. Bere è un'abitudine dannosa che ognuno dovrebbe abbandonare, ma oggi è un'occasione troppo speciale per sottostare alle regole. Dobbiamo festeggiare perché tutto è perfetto, tutto sa di lei, profuma di lei, mi parla di lei; e mentre mi porto il vetro alle labbra assaporando il primo sorso di freddo alcool, non posso fare a meno di congratularmi con me stesso.

Poi lei si muove.

Con un delicato gemito allunga mollemente una mano fino a toccarsi il viso, contrae le dita dei piedi ed infine apre gli occhi. Sbatte le palpebre, pare confusa, la luce nella stanza è volutamente soffusa perché sapevo avrebbe potuto darle noia, e difatti lei stringe leggermente le palpebre in direzione della lampada da scrivania che irradia la sua aura giallognola fin quasi agli angoli della camera.

Infine, nonostante le scarse energie che le restano, si fa forza e si costringe a sedersi sul letto, tra quelle coltri fresche e leggere che l'hanno accolta finora nel suo delizioso sonno.

"Dove mi trovo?"

Perfino la sua voce è priva di qualsivoglia difetto.

Chiudo gli occhi per assaporare al meglio questo momento, niente potrà mai eguagliarlo nella sua perfezione. Sorrido incurvando le labbra impercettibilmente, lei è così perfetta, oh, così deliziosa.

"Dove- cosa sta succedendo?" ripete.

Spalanco le palpebre e lascio che il mio sguardo scivoli su di lei: con quella sottoveste di candida seta somiglia incredibilmente ad un angelo, i suoi lunghi capelli, rossi come il fuoco, le ricadono liberi sulle spalle e qualche ciocca addirittura le si è posata davanti al viso, e nonostante questo intacchi la precisione del quadro che ho creato, mai avrei potuto acconciarglieli diversamente. Sono la sua anima, il suo orgoglio, l'espressione più lampante della sua eterna libertà e tali devono rimanere, sempre, fino in fondo.

Si porta una mano alla tempia, toccandosela con una delicatezza che non credevo esistesse su questo pianeta. Non penso sia consapevole della sua perfezione, di quanto tutto, con lei, acquisti il giusto senso e l'equilibrio adatto.

"Dove mi trovo? Cosa sono questi vestiti?" sussurra, probabilmente più rivolta a sé stessa che a me. "La prego" continua, alzando infine lo sguardo per incontrare i miei occhi. Mi ipnotizza all'istante, il suo potere su di me è eterno ed inviolabile, e neppure l'onnipotenza della morte potrà nulla su di lui. "Mi faccia uscire di qui, mi lasci andare... la prego".

Con estrema cautela mi alzo dalla poltrona e mi avvicino al letto. Non voglio spaventarla dopotutto, la pace deve tornare ad abbracciarla e la paura è sua nemica giurata.

"Tranquilla, honey" mormoro, oramai a pochi centimetri dal suo orecchio. Un paio di orecchini di perle ne orna i lobi, su nessuna sono mai risultati tanto naturali ed appropriati, e questo mi fa credere di aver fatto la scelta giusta.

È lei.

"Non aver paura, honey. Lo vedi? Tutto questo è per te" affermo col mio tono più dolce e rassicurante, indicando la stanza, il letto, il giradischi che troneggia sulla scrivania e il vestito che indossa. È talmente perfetto che pare essere stato cucito su di lei, è nata per indossarlo. "Solo per te e per me. Sarà la nostra notte".

Le sue labbra, le sue morbide e calde labbra, questa sera tinte di un rosso ciliegia che le rende ancor più piene e carnose, si schiudono delicate.

I suoi occhi, scuri come i fondali marini più misteriosi e grandi quanto quelli di una stupenda bambina, si spalancano incatenandosi ai miei per sempre.

Le mie mani si avvicinano a lei nella più profonda dimostrazione d'amore che qualcuno potrà mai offrirle.

Quel cocktail che mi ha permesso di parlare con lei al bar, poche ore fa, sta avendo ancora qualche effetto sul suo corpo e sulle sue percezioni, poiché non riesce a racimolare abbastanza energie da contrastare la mia volontà.

Nessuna lacrima le oscura la vista, mentre le mie dita si serrano alla sua gola.

È perfetta, ed è finalmente mia.


La guardo, immortalata in questo istante per l'eternità. Coperta di immacolata seta, ornata di perle e circondata da questa pace che ne esalta la figura mentre, stesa sulle fresche coltri del letto, riposa.

Aggrotto le palpebre, la mia mente ha fotografato ogni secondo e mai dimenticherò questa notte.

Anche se...

Forse lei era quella giusta.

Ne osservo la linea delle labbra, il taglio degli occhi, quel modo aggraziato che ha di posare le mani attorno al suo viso mentre giace, e il dubbio mi assale.

Lei era sicuramente quella giusta, perfetta sotto ogni aspetto, ed io l'ho persa, un'altra volta.

Vuoto il bicchiere di scotch, è già il secondo ma non me ne curo. Non ne seguiranno altri, non questa notte.

L'ho persa, e tutto per colpa della mia debolezza. Se solo fossi stato più forte, se solo fossi riuscito ad eguagliare la sua perfezione! Se solo fossi stato in grado di meritarla...

Il rimpianto segnerà i miei vuoti giorni, colmerà le mie insonni notti, sarà la costante unica di ogni mio secondo di vita d'ora innanzi e non me ne do pena, perché mi merito tutto. Il dolore, la colpa, la nostalgia, e infine il rimpianto, che è il più doloroso perché mi ricorderà sempre che avrei potuto averla, se solo fossi stato di più.

Oh, crudele destino, oh, impietosa vita, che mi hanno reso tanto debole.

Se solo fossi stato in grado di salvarla.

Scruto ogni dettaglio di lei che, immersa in questa stanza così perfettamente nostalgica, crea la dia positiva di una diva del cinema che nessuno mai dimenticherà.

Le ho donato l'immortalità, sarà così, bella e giovane per sempre, e l'ho fatto privando me stesso di tutto ciò che avevo.

Lei era perfetta, lei era quella giusta, e se solo fossi stato diverso, oh, li rimpiango! quei giorni distanti nel tempo e nello spazio quando ancora avrei potuto fare qualcosa.

E ora... ed ora sono qui, solo.

Ma non lo sarò per molto tempo, no.

Con un gesto reso meno accurato dalla fretta e dall'eccitazione spalanco la borsa che avevo poggiato sulla sedia, riposta diligentemente sotto la scrivania, e ne estraggo una cartellina. Solamente tre fogli la riempiono, uno dei quali è una fotografia: pelle bianca come il latte, liscia come quella di nessun altro, labbra carnose e naturalmente rosse, occhi così scuri da poter parere neri, e capelli rossi, rossi come il fuoco e ribelli.

Guardo per l'ultima volta la ragazza che giace, inerme, sul letto, e noto ogni differenza con lei, che dalla foto mi sorride.

Come ho fatto a non vederlo? A non capirlo?

Nessun'altra era quella giusta, perché colei che la fotografia ha immortalato la è.

È lei. È perfetta.

Lei è quella giusta.


The regrets are useless in my mind

She's in my head from so long ago.

[Whatsername - Green Day]



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Ferite

14 Giugno 1800


Fu uno dei pochi testimoni esterni in grado di assistere a quella giornata che sarebbe passata alla storia: lui, che dalla sua posizione poté vivere tutta la scena, vedere l'inizio e sopravvivere fino alla fine.

Ma quando il silenzio tornò a regnare, dopo che l'inferno fu arrivato e si fu dissolto, il mondo fino ad allora conosciuto era scomparso, distrutto per lasciare spazio ad un'altra realtà che si levava terribile più di qualsiasi cosa avesse mai visto prima.


Il sole sorse quando le cinque e mezza erano passate da pochi minuti e, dopo intensi giorni di pioggia che avevano lasciato la terra umida e rigogliosa, quei timidi raggi vennero accolti come si accoglie un caro amico mancato per troppo tempo. Le campagne intorno al centro abitato rilucevano di rugiada, la primavera stava cedendo il passo all'estate e i campi coltivati non erano i soli a brulicare di vita.

Quella pianura circondata dalle colline ed incastonata tra due fiumi pareva un angolo di paradiso: verdeggiante e fertile, piuttosto umida, certo, in quei giorni successivi alla precipitazione di ben poco modeste piogge era arrivata a sembrare quasi una palude, ma sicuramente questo non faceva altro che avvantaggiare la crescita di una rigogliosa flora.

Poco distante, però, in quella mattina di metà giugno qualcosa stava avvenendo, qualcosa che avrebbe cambiato tutto in maniera brutale e definitiva.


L'unico testimone che sarebbe stato in grado, se solo avesse potuto farlo, di raccontare con dovizia di particolari lo scorrere degli eventi, ancora non poteva nemmeno lontanamente immaginare cosa sarebbe accaduto di lì a non molto.

Per il momento si ergeva in tutta calma, godendosi i raggi tiepidi del mattino.

Si preannunciava una giornata calda, di quelle che fanno rimpiangere l'autunno e che costringono la pioggia caduta in precedenza ad evaporare creando una coltre di umidità quasi impenetrabile e decisamente poco sopportabile.

Non era successo nulla di strano lì intorno, nulla di fuori dall'ordinario aveva minacciato la serenità di lui, ancora.

Da quando quelle sconosciute truppe militari avevano attraversato la campagna per accamparsi in un vicino casolare, niente di interessante era accaduto.

Semplicemente, aveva smesso di piovere.


Il sole brillò pacificamente per circa due ore e mezza, e a tutti gli effetti continuò indisturbato anche dopo nonostante l'impressione che l'oscurità avesse preso possesso di quel luogo, prima così luminoso e bello.

Fu l'arrivo di altre truppe militari a scandire l'inizio della fine.

Lui non le aveva mai viste eppure erano state lì a lungo, protette dalle mura della città che da tempo ormai temeva l'inevitabile confronto tra le due parti. Erano soldati differenti, lui lo notò nonostante non avesse motivo di interessarsi alle faccende umane: il loro abbigliamento era molto simile a quello dei plotoni che aveva imparato a riconoscere in quei giorni, e allo stesso tempo era molto diverso, così come la lingua che parlavano, dopotutto.

Lui non capiva né l'una né l'altra, ma non era mai stato un problema quello: i contadini non avevano mai fatto caso a lui, e lui aveva continuato a crescere indisturbato per anni e anni, nutrendo inconsapevolmente un equilibrio perfetto tra uomo e natura.

Quella mattina le truppe in bianco, che costituivano parte dell'esercito austriaco, attaccarono i soldati francesi.

Erano le otto in punto, il sole procedeva nella sua scalata del cielo ed era ancora lontano dal traguardo, le temperature iniziavano già a salire; lui aveva assistito a molti scontri tra uomini, nel tempo, ma mai aveva capito i motivi che li avevano spinti. Quella mattina avrebbe voluto esserne in grado, forse perché la battaglia era più vicina di quanto avesse immaginato e di certo molto più vicina di quanto si sarebbe augurato, forse perché aveva intuito che quella sarebbe stata una giornata diversa per lui.


Li vide avanzare lentamente.

Non sembravano desiderosi di conquistare metri o terreno, semplicemente si gettavano l'uno contro l'altro con violenza, il loro bisogno pareva essere quello di abbattere gli elementi avversari e nient'altro, ma quale specie anela all'autodistruzione così fortemente e con tanta determinazione?

I loro spostamenti erano accompagnati da una nuvola bianca che nascondeva prima questo e poi quel plotone, che spariva trasportata dal vento ma che ricompariva qua e là di continuo, all'improvviso, accompagnata da uno scoppio e spesso dalla caduta di un nemico.

E infine, il rumore.

Il rumore era l'aspetto più spaventoso, quello che aveva squarciato la tranquilla monotonia di un giorno come un altro per far posto al terrore, era costante, un insieme di voci e urla e scoppi, ma allo stesso tempo si propagava in onde variabili, a volte più basse ma solamente per crescere di volume l'attimo successivo.


Infine furono vicini abbastanza.

Poté vedere le loro divise, i loro volti, le armi che tenevano in mano e che brandivano mentre i cannoni tuonavano dalle ultime fila, e dopo aver tenuto sotto controllo la situazione da lontano così a lungo, vedere i combattimenti snodarsi e svolgersi attorno a sé fu la vera discesa verso l'inferno.

Al di sopra degli spari ora si levavano le direttive dei comandanti, gli incitamenti dei compagni, ma soprattutto le urla dei feriti che cadevano uno dopo l'altro lungo quella strada, divenuta eterna per loro.

Lui vedeva tutto, nessuna scena passava inosservata ma, malgrado l'orrore che permeava la sua silenziosa contemplazione, non riusciva a comprendere del tutto l'angoscia e la paura di quegli esseri che si combattevano con tanta forza. Molte domande si avvicendavano in lui, che mai avrebbe potuto nemmeno immaginare le motivazioni capaci di muovere una guerra tanto difficile e violenta, ma un interrogativo fra tutti si impose alla fine perché nella sua longevità il dolore era qualcosa che raramente aveva sperimentato.

Chissà cosa provavano quegli esseri umani che, feriti, sanguinavano macchiando il sottobosco e l'erba e la terra con il loro sangue vermiglio. Chissà cosa sentivano nel momento in cui le lame o le subdole pallottole dei moschetti trapassavano le loro carni, strappando loro gli arti o trafiggendone la gola.

Qualche colpo stava arrivando perfino a lui ormai, lo colpivano pallottole vaganti provenienti da entrambi gli eserciti ma ciò che provava al contatto non poteva essere definito dolore: quasi non lo sentiva, e di certo non ne soffriva. La sua corteccia e le sue fronde si sarebbero rigenerate in fretta e quei colpi sarebbero stati solamente un'altra notevole parte della sua storia.


Accanto a lui, un uomo venne colpito.

Non sembrava un semplice soldato, anche al meno attento degli sguardi sarebbe subito parso chiaro che era ben diverso da coloro che erano caduti in gran numero sopra alle sue radici nel corso delle ultime ore, mentre il giorno pian piano avanzava; quell'uomo era diverso, sia a causa della sua più distinta divisa sia per la decisione e l'autorità che trasmetteva col suo solo sguardo.

Le truppe che avanzavano alle sue spalle gli rivolgevano i loro occhi, lui non si risparmiava, combattendo con ardore e spronando i suoi uomini, i suoi compagni.

Un colpo lo raggiunse alla schiena proprio mentre volgeva le spalle al nemico; a metà di una frase, di un urlo di guerra che incitava i soldati a non mollare, a non arrendersi perché la vittoria sarebbe stata loro.

Mai avrebbe saputo di aver avuto ragione.

Si portò la mano sinistra al petto, sporcandosi di sangue e interrompendo il suo discorso proprio sul più bello. Il respiro gli si fermò in gola, i suoi occhi divennero vacui, così era la morte per qualcuno fatto di sangue, ossa e carne.

Lui, testimone silenzioso, si soffermò su quell'uomo esanime tentando di comprendere il suo dolore; dopotutto la ferita che aveva intaccato il suo delicato corpo era grande poco più di un sassolino, come poteva averne causato la morte? Come poteva un corpo perdere la vita per un foro tanto piccolo, tanto insignificante?

Lui non avrebbe mai capito, e di ciò si rammaricava almeno un po'. Forse gli umani lì presenti lottavano con tutto quell'ardore proprio per il terrore di poter facilmente perdere la vita; forse se la sua esistenza fosse stata più fragile anche lui avrebbe combattuto per essa così strenuamente.

Invece se ne restava lì, immobile e immutabile, mentre le sue radici iniziavano a sentire il sapore della morte che poco alla volta era penetrata nel terreno infiltrandosi in ogni particella di quel luogo un tempo pacifico e puro.


Il sole era alto nel cielo anche se i suoi raggi non scaldavano più nessun cuore; presto sarebbe scesa la sera.

A lui pareva fossero passati pochi minuti, visualizzava già il momento in cui quella battaglia errante sarebbe stata abbastanza lontana per poter essere ignorata e poi pian piano dimenticata.

Fu allora che qualcosa lo colpì, qualcosa che lui sentì.

Un boato scosse la terra a pochi passi da lui, una nuvola bianca, l'ennesima che si alzava saturando l'aria umida quel giorno, annebbiò per qualche tempo ciò che gli stava accadendo intorno.

Ma lui non poteva curarsene in quel momento, perché aveva sentito il colpo, perché l'aveva percepito.

Il cannone aveva sparato da vicino e aveva mancato il suo reale bersaglio, ma aveva colpito lui in compenso.


Nessuno se ne curò, gli umani continuarono la loro avanzata combattendo gli uni contro gli altri in un desiderio profondo di autodistruzione, lasciandosi alle spalle un albero colpito, testimone involontario di una battaglia che sarebbe entrata nella storia, vittima innocente di un conflitto che nemmeno comprendeva.

Il pesante metallo, caldo e intriso di una forza violenta, fendette l'aria arrivando a trafiggere la sua struttura: bucò la corteccia, trapassò le fibre, strappò via parte del suo essere provocandogli una ferita che mai si sarebbe del tutto rimarginata.


Gli umani continuarono la loro avanzata, lui si guardò intorno quando il silenzio tornò a fare da padrone e si rese conto che nulla sarebbe stato come prima, per molto tempo almeno.

I campi rigogliosi, la flora verdeggiante, la campagna intera era stata devastata dalle fiamme dell'inferno che si erano manifestate sotto forma di piccoli esseri umani, delicati abbastanza da morire per ferite quasi invisibili ma capaci di crearne altre tutto intorno a loro, molto più grandi e impressionanti.

In mezzo alla pianura si stagliava ora un'orribile ferita oscura, entro la quale giacevano innumerevoli corpi colpiti a morte, dove la natura era perita in un mare di sangue.


Lui era l'unico testimone esterno. Sopravvisse alla battaglia, ma ne conservò il marchio per molto tempo.

I suoi rami si allungavano verso il cielo, verso il sole che il giorno dopo la battaglia era tornato a brillare come sempre; le sue radici si dipanavano per metri e metri nella morbida terra; il suo fusto, forte e possente, era solcato da una cicatrice profonda, memoria della ferita che gli aveva insegnato cosa fosse il dolore.

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